giovedì 26 febbraio 2009

L'ospite inatteso


Opera seconda di Tom McCarthy, sceneggiatore, regista e altrove anche attore, L’Ospite inatteso ruota attorno alla figura di Richard Jenkins, perfetto “ordinary man”, che fa economia sulla propria vita, cercando di restare legato al passato attraverso uno strumento –il piano- per cui non è portato, salvo scoprire accidentalmente di avere un cuore che batte ancora, al ritmo di un tamburo africano. Ma il concerto è ancora agli inizi che già deve lasciare il posto allo sconcerto, di fronte al trionfo dell’ordine e dei suoi burocratici esecutori.
Se nel precedente The Station Agent, vittorioso al Sundance, l’autore portava in scena un trio fuori dal mondo, qui i personaggi sono sì dei diversi, innanzitutto l’uno per l’altro (e Mouna non può non notare quanto sia nera Zainab), ma sono al contempo rappresentanti comuni della cittadinanza della metropoli contemporanea, suoi ospiti in entrambi i sensi di marcia.
Il senso di lutto che si respira nel film non è marginale né è un retaggio del passato dei protagonisti ma è la constatazione presente e progressiva della morte di un valore di accoglienza e di libertà che l’America si diceva orgogliosa di incarnare. Ad Ellis Island, dove si passava per diventare cittadini, ora si passa per essere schedati, trattenuti, rispediti al mittente. Non è più tempo di parlare di “green card” in chiave di commedia, ma è sempre tempo di portare la macchina da presa nelle strade e di mostrare la città quale è.
Qui Tom McCarthy fa un cinema civile e personale, delicato, sentimentale, non refrattario allo svolazzo di fantasia ma documentato e determinato. Apparentemente un fiume che scorre tranquillo, L’Ospite inatteso vive di correnti sotterranee agitate, mostra e persino dimostra, ma rigorosamente con le sole armi del cinema.

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